I colori del mondo nelle foto di Francesco Malavolta

Quando smettiamo di vedere e cominciamo a guardare, quando siamo disposti ad ascoltare e non ci limitiamo più a sentire, lì comincia la vera bellezza: la conoscenza dell’altro. È questo il principio che, ormai da tempo, guida  il lavoro di Francesco Malavolta. Con 19 mila follower su Facebook e 5 mila su Instagram, il “fotografo dei migranti” – come viene definito – informa, insegna, obbliga le nuove generazioni a riflettere sugli ultimi del mondo, raccontandoli attraverso immagini pluripremiate.

Nato a Corigliano Calabro, il fotoreporter vive a Roma, ma dal 1994 gira l’Europa e non solo al seguito dei flussi migratori. La sua passione per la fotografia è affiorata intorno ai 17 anni d’età quando, vagando per mercatini, si è imbattuto nelle pile delle riviste ingiallite dai nomi altisonanti: Epoca, Life, Panorama, l’Espresso. Folgorato dalla qualità delle immagini e dalla profondità di alcuni servizi, il giovane Francesco ha cominciato a fotografare, non sapendo dove sarebbe arrivato.

Francesco Malavolta

Risalgono agli anni Novanta i suoi primi lavori importanti, da divulgatore. Nel porto di Brindisi sbarcano frotte di disperati in arrivo dall’Albania. Per l’Italia il fenomeno è nuovo, la politica si interroga, i giornalisti accorrono in massa sulle banchine. Tra tutti, c’è anche Malavolta, freelance ancora sconosciuto, un bagaglio di passione civile e bisogno di capire.

Volevo scoprire cosa ci fosse dietro ogni volto. Volevo conoscere le storie di quelle persone. Rubare qualche scatto non mi bastava. Così, sono rimasto per giorni e poi per mesi su quel molo. Di fronte a migliaia di esseri umani ammassati ed esausti,  dentro me è successo qualcosa che ha cambiato radicalmente la mia vita.

Francesco Malavolta

Le foto di Francesco Malavolta cominciano a girare. I giornali le comprano e le pubblicano, forse perché non sono semplici ritratti, ma documenti di denuncia. Ovunque si verifichi uno sbarco, un salvataggio, il fotogiornalista c’è e si impone una regola, quella del rispetto della dignità umana. Dallo stretto di Gibilterra al mar Egeo, da Brindisi a Lesbo, poi a Lampedusa, nella penisola balcanica, in Macedonia, in Serbia, in Croazia, a Ceuta e Melilla – due enclave spagnole, geograficamente situate in Marocco – e di recente in Sri Lanka, Etiopia, Burkina Faso, tra i bambini che lavorano nelle miniere. Migliaia di chilometri e mesi e mesi su navi da soccorso per raccontare “la vita”.

A chi gli domanda che cosa cambierebbe del suo lavoro, se potesse tornare indietro, Malavolta risponde sempre la stessa cosa: “Avrei dovuto cominciare prima”. E arrivano, intanto, i riconoscimenti e le collaborazioni internazionali. Al fotoreporter si rivolgono l’Unione Europea, The European Border and Coast Guard Agency, Associated Press, nonché organismi come l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) e così altre.

Malavolta ritrae la disperazione, ma anche la felicità di chi riesce a realizzare il sogno di raggiungere l’Europa. Diventa un simbolo una foto che scatta nel 2011 a Lampedusa. Sullo sfondo di un molo coperto di stracci, primeggia l’immagine di un ragazzo vestito da uomo, in giacca e cravatta, partito dalla Libia con due lauree e quattro lingue. Lancia un messaggio forte e chiaro: non fermatevi a guardare il colore della mia pelle, ho studiato, faticato, sono scappato per la repressione e adesso voglio realizzarmi in un Paese in cui regni la pace.

Altra foto simbolo, il bacio nel 2015 nel mar Egeo che il fotografo titola «Lui pensava che la “sua” lei fosse morta nell’oscurità della notte. Lei pensava che il “suo” lui fosse sparito tra le gelide onde. Entrambi speravano di rincontrarsi in cielo. Ma il destino regalò loro altri baci. La morte dovrà aspettare». La foto scattata da Francesco Malavolta a bordo di una nave norvegese della missione Frontex – diffusa su Facebook e che ritrae il bacio tra due siriani – sta diventando l’ennesima icona della tragedia di profughi e migranti in fuga da guerre e povertà e in cerca di una nuova vita in Europa. La foto è stata scattata davanti all’isola di Lesbo. Il gommone con cui la coppia tentava di raggiungere la Grecia era affondato nella notte. I migranti che viaggiavano sull’imbarcazione, circa una decina, sono stati messi in salvo dall’Agenzia dell’Unione Europea.

Ma alle gare di solidarietà, si affianca l’intolleranza. Nel mezzo, chi teme che un’economia precaria possa risentire dell’accoglienza. È qui che entrano in gioco i media e le notizie che veicolano. Malavolta lo capisce da subito. E si rende conto che i media tradizionali non bastino a fare comprendere la complessità del fenomeno migratorio.

Gran parte degli Italiani si informa attraverso la televisione, “ma gli immigrati non hanno voce nei telegiornali – dimostra la ricercatrice Pina Lalli dell’università di Bologna – perché qui si usano solo fonti istituzionali e nelle istituzioni ci sono pochi rappresentanti stranieri”. Del lavoro dei migranti, per esempio, si parla pochissimo (3 per cento), delle iniziative solidali poco di più (13 per cento), i protagonisti dei fatti vengono spesso citati (65 per cento) e raramente consultati (25 per cento).

Interviene l’Ordine nazionale dei giornalisti che vara nel 2008 la Carta di Roma, una serie di regole deontologiche che vietano a chi realizzi servizi l’utilizzo di espressioni razziste e di immagini che violino la dignità umana. È un grande passo avanti, ma non basta ancora. Man mano che ci si avvicina al 2020, la partita per il rispetto di ogni essere umano si gioca sul web. Ed è qui che Francesco Malavolta approda, facendosi conoscere ovunque. 

Grazie a Facebook dialogo con i giovani e con tanti insegnanti. Spesso mi invitano nelle scuole, ho incontrato di persona fino ad oggi oltre 20 mila studenti.

Francesco Malavolta

Decine le sue mostre, dalle scuole alle strade di Parigi, dalle gallerie al Senato, tutti luoghi dove far rumore. Il tempo ha consacrato il fotoreporter tra i grandi artisti italiani, ma lui si considera “soltanto” un giornalista, un professionista dell’immagine che ha ancora tanto da raccontare.

Il mondo del web, del resto, è in continua evoluzione. Pensiamo all’acquisizione di Instagram da parte di Facebook e allo stesso diario di quest’ultimo che privilegia, ogni volta che si rinnova, sempre più le foto.

Secondo le neuroscienze, il cervello umano è 60 mila volte più veloce ad elaborare le immagini, rispetto ad un testo scritto. E le immagini parlano, attraverso il linguaggio emotivo. Quello necessario per capire il prossimo.

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