Il punto sulla scuola con il giornalista di Avvenire Enrico Lenzi

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L’emergenza Covid-19 ha costretto la scuola italiana, e non solo, a prendere seri e drastici provvedimenti per affrontare una situazione surreale, alla quale non era preparata. Questo nuovo anno scolastico pone molte incognite, non potendo immaginare cosa accadrà.

Abbiamo chiesto, allora, ad Enrico Lenzi, giornalista del quotidiano nazionale Avvenire, di raccontarci la sua lunga esperienza sulla narrazione scolastica e di darci una sua opinione sul momento delicato che l’istruzione sta vivendo.

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Enrico Lenzi, giornalista di Avvenire

Prima di tutto, le presentazioni: parlaci di te e della tua esperienza in ambito giornalistico.

“Mi chiamo Enrico Lenzi, ho 56 anni e da 31 anni svolgo l’attività di giornalista presso il quotidiano cattolico Avvenire. Ho iniziato come collaboratore per la cronaca di Milano e per un anno ho seguito anche la scuola. Dopo due anni sono stato assunto: dapprima ho lavorato al settore Interni e poi sono approdato nell’ambito dell’informazione religiosa «Catholica», continuando comunque ad occuparmi di temi scolastici ed educativi”.

Come ti sei appassionato al giornalismo?

“Devo dire grazie alla mia maestra della scuola elementare, Livia Musumeci. Nei primi anni Settanta, una volta al mese ci faceva portare a scuola i giornali e ci faceva creare cartelloni con le notizie più importanti di quel mese. Poi, non posso nascondere che sono curioso ed è un’ottima spinta per intraprendere questa professione.

Anche al ginnasio ho trovato una professoressa di italiano, Paola Veronese, che ci ha fatto usare il libro di Paolo Murialdi «Come si legge un giornale». Eravamo nel 1979, ben prima che diventasse normale portare e leggere i quotidiani in classe, come avviene oggi.

Un ulteriore passaggio è stato la collaborazione con il mensile di informazione e cultura «Il Diciotto», il giornale del mio quartiere, Baggio. È stata, per me, la prima vera palestra per vedere se davvero sapessi scrivere e, soprattutto, trovare le notizie”.

Come sono cambiate la scuola e l’istruzione da quando te ne occupi?

“In questi ultimi 30 anni ho potuto seguire un periodo caratterizzato da riforme e controriforme della scuola. Se da studente ho vissuto l’applicazione dei Decreti delegati che introducevano la partecipazione di tutte le componenti nella vita scolastica, da giornalista ne ho visto il progressivo ridimensionamento, con un aumento della delega da una parte consistente dei genitori alla scuola su molti temi. Una delega che non nasce dalla fiducia nell’istituzione, quanto dalla paura di affrontare in casa certe tematiche.

Questo, però, ha caricato la scuola di troppe aspettative e a volte ha dato l’impressione che si perdesse di vista il suo compito primario. Lo stop imposto dalla pandemia e il ricorso alla didattica a distanza rappresentano, forse, l’occasione per un serio dibattito sul ruolo della scuola nel futuro della nostra società”.

E il modo di raccontarla?

“Non mi pare che sia cambiato molto il modo di raccontare la scuola sui quotidiani, in questi decenni. Di scuola si parla nei momenti «clou» dell’anno scolastico (apertura, chiusura, esami di Stato), quando accadono fatti di cronaca – a volte incredibili – e, più nel passato, durante le proteste studentesche.

A mancare, secondo il mio parere, è un dibattito sui temi fondanti, sul ruolo della scuola, sul patrimonio che rappresenta per le giovani generazioni e il futuro del nostro Paese. Il mio quotidiano, Avvenire, cerca di non dimenticare mai questi aspetti, ospitando sia contributi esterni di esperti ed editorialisti, sia svolgendo qualche inchiesta su temi legati all’educazione. Del resto, Avvenire è il quotidiano dei cattolici italiani che su questo tema hanno una grande sensibilità e attenzione”.

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Quali sono gli argomenti che bisogna sempre trattare nella narrazione della scuola e quali, se ce ne sono, è meglio evitare?

“Non ci sono argomenti che non vanno trattati. Il vero problema, ricollegandomi a quanto detto prima, è il come si vuole raccontare la scuola. Se scelgo di raccontare una scuola solo nei suoi momenti negativi, non faccio che ingenerare l’idea che tutto vada male e che sia quasi inutile andarci. Se parlo solo degli aspetti positivi ne fornisco una visione edulcorata in cui la maggior parte non si riconosce.

Come sempre, quello vincente è un approccio equilibrato. Bisogna raccontare  la scuola com’è, senza tesi precostituite, stereotipi, luoghi comuni. Ma credo che questo debba essere l’approccio che ogni giornalista dovrebbe avere su qualsiasi tema”.

Parliamo di attualità: a livello d’informazione, com’è stata gestita la questione Covid-19 nelle strutture scolastiche e universitarie?

“Credo che all’inizio siano prevalsi la paura e lo smarrimento che la pandemia ha provocato. Anche scuole e università hanno affrontato la questione al buio, senza punti di riferimento e senza un coordinamento che le aiutasse a dare risposte a studenti e famiglie. Poi si è cercato di strutturare risposte con la didattica a distanza e di razionalizzare il momento che si stava vivendo. Ora c’è la grande sfida dell’avvio del nuovo anno scolastico con il ritorno in classe.

Quali sono le paure più frequenti che riscontri quando si parla di questo delicato periodo storico dell’istruzione?

“Nell’immediato mi pare ci sia quella di come gestire il rientro in classe osservando tutte le precauzioni anti-contagio. Misure molto rigide, anche se credo che con il buon senso si possa trovare, anche in questo caso, un giusto equilibrio.

Certo, diversi aspetti restano ancora aperti: cosa succede davanti ad un alunno positivo? L’isolamento coinvolgerà solo i genitori o anche persone con cui questi ultimi hanno avuto a che fare sul lavoro? Vedremo nelle prossime settimane.

Sul lungo periodo, invece, mi pare che a preoccupare sia il recupero della relazione docente-studenti, il rapporto educativo che avviene in classe e che certe regole o la stessa didattica a distanza rendono più complesso. Ma non possiamo cancellare questo rapporto fondamentale, che incide spesso sulla vita futura degli studenti”.

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Pensi che ci sia un divario tra la percezione e la realtà effettiva di questa delicata situazione?

“Ancora una volta entra in gioco la modalità con cui vogliamo parlare di scuola. Se si cerca di essere onesti e obiettivi – sapendo che l’obiettività assoluta è difficile da raggiungere – questo divario sarà minimo.

Molto aiuta anche cercare di andare sul campo, porsi domande ed essere buoni osservatori. Bisogna impegnarsi ad allargare lo sguardo dal particolare al totale, non fermandosi al singolo caso, facendolo diventare l’emblema di una situazione. Insomma, è necessario mettere in campo quella curiosità che spesso come giornalisti abbiamo messo nel cassetto”.

Cosa può fare un giornalista per dare informazioni corrette e, al contempo, non creare allarmismo?

“Se si è onesti ed obiettivi, probabilmente non si creerà allarmismo. Il che non vuol dire non sollevare l’allarme davanti a situazioni oggettivamente preoccupanti. In quel caso, non parlerei di allarmismi, ma di accendere una luce su un problema vero, che bisogna affrontare”.

Cosa ti auguri per il prossimo futuro dell’istruzione? E per il futuro un po’ più remoto?

“In primo luogo, che l’attuale situazione possa concludersi in un tempo ragionevole. Secondariamente, che si torni a parlare della scuola come luogo in cui costruiamo il futuro del nostro Paese.

Sarebbe bello se tutte le forze politiche e sociali concordassero su questo e si mettessero realmente attorno ad un tavolo per ridisegnare una scuola adatta ai nostri tempi senza rivendicazioni di parte, senza guardare al proprio interesse. E magari, per una volta, anche senza guardare all’istruzione nell’ottica del risparmio, passando da una logica che la considera una spesa per lo Stato, quando invece è un investimento per il futuro. Di tutti”.

Ringraziamo Enrico Lenzi per la disponibilità e ci uniamo alla sua speranza per una scuola che non rappresenti una “spesa”, bensì il futuro del nostro Paese.

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