Roma riparte dalle donne. La Galleria Nazionale prepara l’evento del 2021

Roma ripartirà dalle donne. Dopo la nomina a rettrice dell’università La Sapienza di Antonella Polimeni, anche il mondo dell’arte intende premiare il talento femminile. La Galleria Nazionale, entro la fine dell’anno, restituirà la visibilità negata alle pittrici che hanno fatto la storia, rimanendo confinate ai dipinti di genere, recluse nei monasteri, lontane dalle corti che rifornivano i collezionisti.

Grazie a Cristiana Collu, direttrice dell’ente culturale dal 2016, si svolgerà un percorso graduale affinché le opere delle artiste diventino almeno il 30 per cento dell’offerta al pubblico. Ma non solo. Per il marzo 2021 è in programma un grande evento dal titolo “Io dico io”, durante il quale saranno esposte le tele di quaranta pittrici.

Per Plinio il Vecchio la pittura è rosa

Secondo Plinio il Vecchio, l’arte occidentale è stata inventata da una donna. Era la figlia di un vasaio di Corinto che, addolorata dalla partenza dell’amato, aveva tracciato sul muro la sua ombra per sentirlo sempre accanto. Da questa prima espressione sono originati il disegno, il ritratto e la scultura. Plinio cita numerose artiste, come l’ateniese Timarete e l’alessandrina Helene.

Con il tramonto del mondo classico, però, diventa difficile poter ammirare l’opera di una donna. Questo proverebbe, per i primi critici, l’inesistenza di “maestre”. Ma gli studiosi di oggi negano la validità di questa tesi. Le pittrici di alto livello sono sempre esistite, ma sono state relegate a ruoli subalterni, obbligate a dipingere soltanto fiori e nature morte, oppure pale per altari.

Il talento chiuso nei conventi

Un esempio emblematico viene fornito da Antonia Doni, primogenita del famoso Paolo Uccello, monaca a San Donato in Polverosa. Vissuta tra il 1446 e il 1488, di lei si conservano opere grandiose, come la “Vestizione di una monaca”. Reclusa tra le spesse mura della sua cella, suor Antonia quando muore viene definita sui necrologi “pittoressa”, perché la parola pittrice non esisteva. A lei si ispirarono altre sorelle, come Eufrasia della Croce, carmelitana scalza a Roma, ma anche imprenditrici di successo come la domenicana suor Plautilla Nelli che indusse Santa Caterina ad allestire una bottega a Firenze, sia per formare allieve, sia per soddisfare le richieste dei committenti.

Plautilla (1524-1588) era molto talentuosa, tanto che per lo storico Giorgio Vasari “avrebbe potuto dipingere come un uomo, se solo avesse studiato”. L’esclusione dalla formazione culturale penalizzò l’artista. Esisteva una questione morale, ci si domandava se fosse opportuno che una donna, destinata alla maternità o alla preghiera, potesse dedicarsi all’arte. Ed esisteva una questione sociale, perché si temeva che le donne, impiegate nelle attività tradizionalmente maschili, potessero diventare autonome economicamente, dunque libere.

Solo le figlie d’arte, pertanto, vennero istruite e divennero famose tra il ‘500 ed il ‘700. Catharina von Hemessen di Anversa, per ricordare la figlia di un onesto ritrattista. Marietta, del genio veneziano Tintoretto, che venne chiamata a corte da imperatori e re, ma il padre non la lasciò mai andare. Artemisia, dell’irrequieto Orazio Gentileschi, che superò il genitore per audacia ed ambizione.

Artemisia Gentileschi

Dalla prima donna architetto…

Come narra la scrittrice Melania Mazzucco nel suo ultimo libro “L’architettrice” (Einaudi, 2020), le figlie d’arte furono numerose ed una, Plautilla Bricci, divenne la prima donna architetto dell’Europa moderna. Se nell’Ottocento dipingere era ancora una virtù sociale, come suonare il pianoforte e conversare, nel ‘900 le donne cominciano ad essere considerate davvero.

Kathe Kollwitz è un simbolo dell’espressionismo, Sonia Delaunay dell’orfismo, Natalia Goncarova del futurismo, Meret Oppenheim e Frida Khalo del surrealismo, Marina Abramovic della body art, Maria Lai dell’arte relazionale, Carla Accardi dell’astrattismo.

E l’ultima biennale di Venezia, non a caso, ha premiato diverse donne: la messicana Teresa Margolles, la nigeriana Otobong Nkanga, la cipriota Haris Epaminonda.

“Le opere delle donne – sostiene Melania Mazzucco – devono essere visibili per fissarsi nell’immaginario e non farci tornare indietro”. Ben venga, allora, l’iniziativa della direttrice della Galleria Nazionale di Roma. E, finché non potremo rientrare fisicamente nei musei, ben venga la svolta iconica dei social media.

…ai musei virtuali

Quello dei social network sta diventando il nuovo ecosistema dell’arte, un ambiente non convenzionale, cui tutti ambiscono. Già durante il primo lockdown, istituzioni e gallerie avevano sfruttato le tecnologie digitali, immersive e virtuali per mantenere acceso il dialogo con il pubblico. Ricordiamo, ad esempio, la challenge lanciata dal Getty Museum di Los Angeles che, lo scorso marzo, aveva invitato i seguaci a ricreare opere d’arte a casa, stimolando la fantasia, per condividere il risultato online.

Oggi, nell’attesa della riapertura, i social offrono l’opportunità di rimanere aggiornati e di aggiungere bellezza alla quotidianità che scorre fra le mura domestiche. La stessa Galleria Nazionale, che su Facebook conta oltre 40 mila followers, ha organizzato webinar anche per i giovani, dando spazio, per esempio, al fumetto.

Una nuova galleria online, tutta al femminile

Un progetto originale è quello appena lanciato dalla trentaduenne Francesca Della Ventura, storica dell’arte contemporanea di esperienza internazionale. La sua galleria virtuale si chiama inWomen.Gallery ed ospita esclusivamente artiste che escono dagli schemi tradizionali, per offrire alta qualità a prezzi popolari.

La scelta di creare uno spazio online non dipende soltanto dal momento storico che stiamo vivendo, ma anche dalla consapevolezza che il mercato sta evolvendo e, in parte, si sta spostando in Rete. Questo, secondo Francesca Della Ventura, significa anche affrontare le sfide che derivano da nuove dinamiche, come la conquista della fiducia di un pubblico che non può vedere, almeno in un primo momento, l’opera dal vivo. Le espositrici si impegnano a devolvere una percentuale del ricavato ad un’associazione che si occupa di difesa delle donne vittime di violenza. Sostenibilità e pari opportunità in un settore dove le donne sono sempre state considerate abusive.

Il riscatto delle escluse

È dalla seconda metà del Novecento che nelle università tutte le immagini, comprese quelle utilizzate in pubblicità, sono materia di studi semiotici e semiologici. Sappiamo che l’immagine non è un oggetto inerte di contemplazione, un corpo vivente che ci attrae o ci respinge, ci incanta o ci ferisce.

Le immagini possono educare e, forse, cambiare il mondo. In occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, celebrata proprio ieri, è uscito sulle piattaforme Amazon Prime Video e Chili il docufilm “Artemisia Gentileschi, pittrice guerriera”, dedicato all’artista secentesca e diretto da Jordan River. Artemisia, vittima di uno stupro, è stata tra le prime della storia a combattere cliché e discriminazioni di genere, riuscendo ad essere ammessa ad un’accademia di disegno.

Possiamo capire, allora, quanta forza possano sprigionare anche sui social le opere delle artiste che, per secoli, sono rimaste nascoste, confinate nella pittura di genere, costrette a vestirsi da uomo –  come Rosa Bonheur – o utilizzate come modelle di pittori famosi. Anche Suzanne Valadon, musa di Degas e madre di Utrillo, adesso può riposare in pace.

Suzanne Valadon
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