I diritti digitali dei bambini tra nuove abitudini e rischi

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L’accesso ad Internet è un diritto umano. Lo stabilisce una risoluzione alla Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia che è stata ratificata il 27 maggio di trent’anni fa, quando la Rete non esisteva, ma si sentiva già il bisogno di dare anche ai più piccoli la possibilità di informarsi. Sono 196 i Paesi che oggi risultano vincolati al rispetto della Carta. Meno della metà riconosce la risoluzione sui diritti digitali dei minori.

In un mondo in cui social network e nuovi media hanno un ruolo sempre più importante, mancano ancora efficaci strategie di promozione dell’alfabetizzazione digitale.

Nelle nazioni emergenti, la diffusione delle nuove tecnologie è stata rapida, ma asimmetrica. E sono cresciuti fenomeni come il cyberbullismo e lo sfruttamento delle immagini dei minori.

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Bambino con il tablet

Diritti digitali: cosa stabilisce la Convenzione ONU

L’articolo 17 della Convenzione ONU stabilisce che “Ogni bambino ha il diritto a ricevere informazioni provenienti da tutto il mondo, attraverso i media (radio, giornali, televisione) e ad essere protetto da materiali ed informazioni dannosi”.

Oggi questa norma viene tradotta nel diritto “a ricevere, creare e condividere contenuti da e con tutto il mondo attraverso la Rete e gli altri media e ad essere protetto dai pericoli che si annidano nel web attraverso un’adeguata educazione digitale”.

Una revisione che mette al centro i bambini e che dovrebbe essere recepita da tutti. Ma cosa succede nella realtà?  

Secondo il rapporto di WeWorld, nonostante i miglioramenti delle infrastrutture, il 4,9% delle famiglie italiane non ha copertura Adsl. Il divario digitale dipende da fattori generazionali e culturali. Le famiglie più connesse sono quelle più istruite e con figli. Le meno connesse quelle formate da anziani e le più povere.

A scuola con la DAD

Che cosa ha rappresentato per la scuola italiana l’anno 2020/2021? Una parentesi difficile per ricominciare tutto come prima? Un’occasione di rinnovamento? L’ultima stazione di una crisi inarrestabile che ha solo trovato il modo di esplodere? Secondo uno studio dell’Unicef, pubblicato a febbraio, la pandemia ha messo in luce le diseguaglianze educative, ma non solo. Gli insegnanti, nella maggior parte dei casi, hanno continuato a svolgere lezioni frontali e soltanto il 14,5% di loro è passato alla didattica laboratoriale che coinvolge e responsabilizza i ragazzi.

Conferma la Comunità di Sant’Egidio che, attualmente, un minore su quattro è a rischio dispersione scolastica. E sono pochi i docenti che sanno attrarre l’attenzione attraverso i mezzi tecnologici.

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Un’insegnante utilizza la LIM

Un esempio viene fornito dall’introduzione nella classi della LIM, la nuova lavagna interattiva multimediale. Su questo schermo si può scrivere, disegnare, allegare immagini, riprodurre video o animazioni. I contenuti visualizzati possono essere digitalizzati, grazie ad un apposito software. Ma nonostante tutte queste possibilità, la LIM viene spesso utilizzata come fosse una lavagna di ardesia!

Scuole italiane: il PC in classe

Solo il 42% delle scuole italiane ha il computer in aula. Nel 58% dei plessi, i ragazzi devono uscire dal loro ambiente per utilizzare il pc, relegato di solito in una stanzetta secondaria. Un settore particolarmente in ritardo è quello della scuola dell’infanzia. Qui, soltanto il 21,5% degli istituti dispone di computer adeguati alle necessità degli alunni.

Scuole italiane: tecnologia e disabilità

Sulle politiche di inclusione, l’Italia è stata sempre all’avanguardia. Con la DAD per gli studenti con disabilità si è retrocessi ad un apartheid non dichiarato. Tra aprile e giugno 2020, oltre il 23% degli alunni (circa 70 mila) non ha preso parte alle lezioni. Al Sud, il dato sale al 29%.

Anche la formazione in tecnologie educative per allievi disabili è in grave ritardo. In una scuola su dieci, nessun insegnante ha frequentato un corso specifico. Nel 61% delle scuole lo hanno fatto soltanto alcuni docenti. Nel 28% tutti gli insegnanti hanno frequentato almeno un corso.

Scuole italiane: studenti stranieri e digitale

Una ricerca del Censis, intitolata “La scuola e i suoi esclusi”, rileva che nella scuole italiane ci sono più di 800 mila ragazzi stranieri. L’apprendimento è difficile, soprattutto per quelli di prima generazione, che sono il 47%. A causa dei problemi linguistici e culturali, questi alunni spesso non raggiungono nemmeno i livelli minimi di preparazione e con la DAD è aumentato il rischio di dispersione scolastica.

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Una classe multietnica

I videogiochi

Si parla di videogiochi, per la prima volta, nel 1952 in una tesi di laurea. A.S. Douglas, all’università di Cambridge, sviluppa OXO, una versione grafica del gioco del Tris, per dimostrare l’interazione uomo-macchina. Bisogna aspettare il 1961 per vedere la nascita di un vero videogame. E dal 1970 il fenomeno si diffonde in tutto il mondo. Oggi i giocatori sono 2 miliardi e mezzo. Il fatturato del settore è da capogiro: 152 miliardi di dollari all’anno. In Italia il 39 per cento delle persone, fra bambini e adulti, dedica più di un’ora al giorno alla console.

La pedopornografia online

È un mercato tristemente in crescita. Non se ne parla abbastanza, forse perché il solo pensiero fa male. L’ultimo rapporto dell’Internet Watch Foundation riferisce di 132.730 siti scovati, con un incremento annuo del 25%. Ma i colossi della Rete non stanno a guardare. Google utilizza software che marchiano le foto, assegnando loro una sorta di impronta digitale, così ogni volta che qualcuno le metterà online i sistemi le riconosceranno e le rimuoveranno dai social e dalle ricerche. I profili degli autori, inoltre, saranno bloccati.

Come proteggere i minori

In Italia, i bambini entro i 12 anni d’età trascorrono in media 4,40 ore al giorno davanti allo schermo del cellulare o del computer. A seguito di gravi fatti di cronaca, TikTok dal mese di febbraio blocca i minori di 13 anni. Fra i 13 ed i 14 anni, però, ci si può iscrivere alla piattaforma con il consenso dei genitori. “Il problema non sono mai le tecnologie – avverte Luigi Rancilio, giornalista specializzato di Avvenire – ma come le usiamo e come educhiamo i nostri figli ad avvicinarsi ad esse”.

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Luigi Rancilio

La distanza anagrafica dai bambini e la formazione analogica degli adulti sembrano ostacoli insormontabili, ma non lo sono.

“Il primo strumento che dobbiamo utilizzare per tutelare i nostri figli – insegna Rancilio – non è uno strumento digitale. Si tratta, infatti, del dialogo. Dobbiamo parlare con i giovani, farci spiegare perché rimangono così affascinati dalla Rete. E, dopo avere capito, possiamo stabilire le regole. Orari, tempi da trascorrere online e così via”.

Da sempre il giornalista sostiene che tutti i genitori dovrebbero sentire il bisogno di imparare ad utilizzare la Rete per tutelare i loro ragazzi. E invita alla cautela nell’esprimere giudizi su episodi drammatici per i quali, spesso, si incolpano i social media.

Ma perché i giovani si aspettano sempre di più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri? Perché parlano facilmente con gli sconosciuti, mentre a casa sono muti?

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Sherry Turkle

A questi ed altri interrogativi cerca di rispondere anche un libro di Sherry Turkle, sociologa della scienza e della tecnologia al MIT di Boston, “Insieme, ma soli”, pubblicato da Einaudi nel 2019. Un aiuto in più per chi voglia approfondire.

   

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